Parasite (2019) #1

Di zecche e di pietre nel film di Bong Joon-ho

Chi è il parassita?

La prima domanda che viene da farsi al termine dell’ottimo e strepitosamente acclamato film di Bong Joon-ho Parasite (quattro premi Oscar e Palma d’oro) è tra le più banali: chi sono i parassiti? Gioca infatti il regista a non volerci far comprendere in modo chiaro ed univoco a chi debba essere attribuita questa etichetta. Anzi, l’impressione prevalente è che, ciascun gruppo a proprio modo, tutti i dieci protagonisti della storia siano parassiti, insetti la cui esistenza è resa dipendente da quella di un altro animale, presso il quale si instaurano e al quale, spesso letteralmente, succhiano il sangue per garantirsi la sopravvivenza, anche a scapito di quella altrui. Proprio a causa di questa strutturale mancanza di autosufficienza, esseri viventi di tal genere non sono granché apprezzati nella tassonomia del mondo animale, al punto che il linguaggio comune associa analogicamente il loro nome al carattere di chi adotta una condotta di vita disdicevole e socialmente disfunzionale, che non contribuisce attivamente al benessere collettivo, ma che invece, appoggiandosi sul lavoro di altri, approfitta di benefici che non gli dovrebbero venire corrisposti.

In questa pur sommaria descrizione si riconoscono innanzitutto i tratti dei sudici componenti della famiglia Kim, che con scaltri sotterfugi riescono a imporre i propri servizi ai ricchi Park e a compiere così, perfino sul piano architettonico, l’ascesa dai bassifondi dell’immondo seminterrato in cui vivono agli olimpici spazi della villa della famiglia Park. Anche il marito della precedente governante (e lei stessa come connivente) rientra a pieno titolo nella categoria, anzi, di tutta la compagnia, ne è il più palese rappresentante: chi più di lui è παρά-σῖτος, che “si nutre presso un altro”? Geun-sae si aggira in effetti da clandestino nei meandri di uno spazio che non è suo e da cui trae ogni giorno cibo e l’essenziale per il proprio sostentamento – alle e sulle spalle di altri. 

Ad una visione appena più attenta, tuttavia, non può sfuggire che, con piena complementarietà, anche i Park parassitano la loro esistenza sfruttando e ‘succhiando il sangue’ ai loro stessi servitori, dai quali risultano del tutto dipendenti e senza i quali il tenore delle loro vite non sarebbe tale. La dialettica servo-padrone di hegeliana (e poi marxiana) memoria si impone in questa lettura in modo prepotente quanto inequivocabile: nulla sarebbe il padrone (nemmeno, per l’appunto, potrebbe definirsi tale) senza il suo servo, che solo in apparenza gli è completamente sottoposto: in realtà, quest’ultimo è padrone del suo stesso signore almeno quanto gli è asservito.

“Il suo odore…di straccio bollito”

Questa stessa convinzione emerge dalla filigrana del film attraverso un piccolo ma significativo dettaglio: la puzza. È un insopportabile olezzo, proveniente dal capofamiglia Ki-taek, che ripugna il suo omologo Ki-jung, il quale descrive alla moglie questo tanfo nei termini di un “ravanello andato a male, anzi di uno straccio bollito”. Il loro figlio Da-song (benché il più giovane, decisamente il più sveglio nel suo nucleo famigliare) si spinge oltre e, sfoggiando un fiuto particolarmente sviluppato, si accorge che lo stesso odore dell’autista connota anche i due insegnanti privati e la governante, mostrando così di intuire, benché a un livello ancora pre-riflessivo, l’incredibile truffa che i quattro hanno escogitato per farsi assumere al completo dai facoltosi Park. Sarà infine l’ennesima espressione di disgusto – per l’odore dell’‘uomo del sottosuolo’ Geun-sae – che affiora sul volto di Ki-jung che, in un gesto di odio e riscatto sociale, porterà il signor Kim a fendere mortalmente il suo padrone. Nel libro Ambienti animali e ambienti umani (Quodlibet, Macerata 2010) il biologo e filosofo estone Jakob Johann von Uexküll ci spiega che l’olfatto è il senso più importante per la zecca, parassita par excellence, che, priva della vista, costruisce il mondo che abita proprio attraverso indizi di natura olfattiva. È il fiuto che le suggerisce come mettere in forma la sua esistenza e che la aiuta ad orientarsi nella realtà; come zecche, quindi, anche i Park, ciechi rispetto al raggiro ordito alle loro spalle, sono tuttavia in grado di individuare, attraverso l’odore, una specificità che, se adeguatamente contestualizzata, li porterebbe a capire cosa sta davvero succedendo attorno a loro.

Continua qui la lettura della seconda parte della recensione.

Questo articolo è stato pubblicato nella mia rubrica dal titolo Philodiffusione del periodico Loescher ‘La ricerca‘.