La terza rivoluzione

Abbiamo la fortuna, o almeno l’opportunità, di essere testimoni, per il periodo storico nel quale viviamo, di un cambiamento epocale. Si tratta di una trasformazione che non riguarda soltanto un certo numero di persone e nemmeno può essere considerata come un fenomeno passeggero, destinato a trascorrere e magari a venire presto dimenticato. A giusto titolo si parla di rivoluzione digitale, perché in effetti quello che stiamo attraversando ha i connotati di un rovesciamento complessivo e radicale dello stato delle cose invalso fino a qualche decennio fa. 

Crediamo di non esagerare dicendo che gli altri due momenti, altrettanto significativi e paragonabili per portata, estensione e conseguenze, sono stati, rispettivamente, la Rivoluzione agricola, occorsa durante il Neolitico e convenzionalmente collocata all’incirca 12.500 anni fa, e quella industriale, avvenuta tra il XVIII e il XIX secolo. Dalla fine del Novecento, infine, sono stati ‘messi in rete’ i computer attraverso il world wide web, la cui data di nascita viene comunemente indicata nel 6 agosto 1991, giorno in cui l’informatico inglese Tim Berners-Lee rese pubblico il primo sito. In tutti e tre i casi menzionati si è verificata una transizione che ha traghettato l’umanità da un certo modo di stare al mondo a un altro, che ha reso impossibile regredire al modus vivendi precedente, e che ha inciso una differenza significativa non soltanto all’interno dell’ambito (l’agricoltura, l’economia e l’informatica) dove si è sviluppato il cambiamento, ma che ha coinvolto tutti i settori in cui l’individuo è implicato, direttamente ovvero implicitamente. In altre parole, potremmo dire che, per tre volte dalla comparsa dell’essere umano, il mondo ha cambiato faccia a partire da alcune innovazioni introdotte da Homo sapiens.[1]

Sul piano della riflessione filosofica, sono molte le domande che possiamo porci a proposito dei queste tre grandissime rivoluzioni, e le interrogazioni spaziano dalle conseguenze politiche (dove il problema del ‘controllo’ la fa da padrone) alle implicazioni etiche (concernenti, per esempio, la possibilità di attribuire o meno una qualche forma di responsabilità alle macchine), dalle problematiche estetiche a quelle più squisitamente teoretiche o metafisiche. All’interno di questo vasto insieme, non è trascurabile né secondaria la riflessione a proposito del concetto di presenza, una nozione che sembra venire fortemente messa in crisi o quantomeno problematizzata alla luce delle recenti innovazioni tecnologiche: come e dove possiamo definirci presenti quando siamo connessi ad altri utenti in rete? Si può essere presenti, contemporaneamente, nel proprio studio e online oppure uno stato pregiudica l’altro? Cosa ne sarebbe della nostra presenza qualora si verificasse un blackout che ci impedisse l’accesso alla rete? Riguadagneremmo una forma di presenza più autentica o, viceversa, perderemmo una parte significativa e ormai imprescindibile della nostra identità?

Evidentemente non si tratta di domande alle quali rispondere in modo perentorio o definitivo, sebbene possiamo cominciare a riflettere su di esse attraverso alcune idee. C’è chi, non a torto, teme che la consuetudine sempre maggiore che abbiamo con i social network ci renda paradossalmente isolati e impoverisca la nostra presenza ponendola in crisi: siamo abituati a interagire attraverso e con uno schermo, e quando poi ci troviamo relazionarci dal vivo risultiamo impacciati, incapaci di riappropriarci di un hic et nunc nel quale sentirci a nostro agio. Sembra, così, che sia diventata necessaria una barriera protettiva tra noi e il mondo costituita da uno schermo che, tuttavia, rischia di precluderci l’accesso al mondo nella sua materiale concretezza: da strumento utile, i dispositivi si sarebbero cioè trasformati in una trappola, una gabbia dalla quale il mondo si osserva senza più poterne fare esperienza.[2]

L’analisi è evidentemente corretta, anche se forse le conseguenze che ne vengono tratte sono troppo drastiche. È vero che siamo passati da un modo analogico di abitare il mondo a uno che ci ha reso “onlife”,[3] in una condizione cioè in cui non ha più davvero senso distinguere quando ci troviamo online da quando invece saremmo disconnessi, per il semplice motivo che non siamo mai davvero offline: ci sono processi che ci riguardano che lavorano, in background, anche quando non stiamo attivamente utilizzando dispositivi elettronici, in qualche caso addirittura quando essi risultano spenti. Inoltre, la condizione di essere online non rappresenta più soltanto uno stato di cose circoscritto, ma un modo di essere che condiziona la nostra attività di pensiero, che influenza le nostre azioni, e che condiziona le nostre scelte, operate anche sulla base del fatto di poter contare sull’ausilio dei vari apparecchi di cui disponiamo.

Eppure non ci è possibile, per ragioni strutturali legate alla nostra natura, smaterializzarci completamente, assumere cioè lo statuto di non-cose,[4] di dati o di pacchetti di informazioni come quelli che viaggiano nell’etere digitale. Per quanto la tecnologia possa spingere al limite le nostre potenzialità, restiamo fatti di carne e sangue, di emozioni che ci rendono fragili ma che spingono anche ad atti coraggiosi. Da questa consapevolezza possiamo ripartire, non con lo spirito luddista di chi rifiuta una realtà già in atto, ma per cogliere la sfida del nostro tempo. Nonostante le miriadi di pixel, algoritmi e connessioni virtuali, la nostra umanità rimane irriducibile[5] ad una sua descrizione in termini di un coagulo di informazioni. Forse, riconoscendo questa semplice verità e promuovendone la sua consapevolezza, possiamo trovare un equilibrio tra la profondità delle nostre radici e le infinite possibilità offerte dal digitale. L’invito, quindi, è a non vedere la rivoluzione digitale come una minaccia, ma piuttosto come un’opportunità per esplorare nuove dimensioni del nostro essere. Come abbiamo attraversato e plasmato le rivoluzioni agricole e industriali, navigheremo anche in questa era digitale, con la speranza, la curiosità e la determinazione che sono al cuore della nostra specie.


[1] Anche Luciano Floridi, uno dei massimi esponenti della filosofia del digitale, parla di quest’era nei termini di una rivoluzione, proponendo tuttavia una differente catalogazione. Per Floridi, quella informatica sarebbe la ‘quarta rivoluzione’, successiva, rispettivamente, a quelle legate ai nomi di Keplero, di Darwin e di Freud. Il suo approccio predilige quindi il punto di vista gnoseologico, relativo cioè alla consapevolezza e conoscenza da parte dell’essere umano del proprio posto nel mondo: ci credevamo al centro dell’universo, al di sopra delle altre creature, trasparenti alla nostra anima, superiori alle macchine e invece, progressivamente, abbiamo dovuto riconoscere la nostra marginalità, parzialità e imperfezione. Non neghiamo l’importanza della validità di tale prospettiva, anche se abbiamo preferito parlare di rivoluzione in termini più oggettivi, cioè in relazione alle trasformazioni che l’agricoltura, l’industria e l’informatica hanno impresso nel mondo. Per approfondimenti, si consiglia la lettura di L. Floridi, La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina, Milano 2017, pp. 99-106.

[2] È questa, per esempio, la posizione di Eugenio Mazzarella, filosofo noto per i suoi studi heideggeriani, che l’anno scorso ha pubblicato uno studio critico sulla realtà virtuale, denunciandone i pericoli, anche in termini di ‘presenza’. Si veda Contro metaverso. Salvare la presenza, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2022.

[3] Luciano Floridi (a cura di), The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era, Springer, Heidelberg-New York-Dordrecht-London 2015.

[4] Il filosofo coreano Byung-Chul Han ha parlato di “non cose” come cifra del contemporaneo in un volume omonimo; cfr. Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2022. Il punto di vista di Han è critico e pessimista rispetto alla possibilità di cogliere gli aspetti anche positivi della rivoluzione digitale.

[5] Di irriducibilità dell’umano alla macchina parla il padre del microprocessore Federico Faggin in Irriducibile. La coscienza, la vita. i computer e la nostra natura, Mondadori, Milano 2022.


Questo articolo è stato pubblicato su “Buddhismo magazine”, 4 (2023), pp. 54-57.